Namibia: diario di viaggio dalla Skeleton Coast al Parco Etosha
Paese di una bellezza sbalorditiva e grande potere attrattivo, la Namibia è un'antica terra di colori, contrasti e culture. Ve la raccontiamo attraverso un percorso a tappe: dalla Foresta del Quiver Tree, alla Skeleton Coast, dalla natura selvaggia dell’Etosha National Park, attraversando la savana e il deserto, fino alle dune rosse del Sossusvlei e oltre.
Una delle più note attrazioni turistiche della Namibia, che affascinò anche gli antichi esploratori, è la foresta endemica degli alberi faretra, meglio conosciuta come Quiver Tree Forest (Kokerboom Woud nella lingua afrikaans).
Divenuta monumento nazionale nel 1° giugno 1995 grazie ai suoi duecentocinquanta esemplari di aloe dichotoma - contorte piante succulente i cui rami erano tradizionalmente usati dai Boscimani per costruire le faretre per le loro frecce velenose -, la Quiver Tree Forest si trova sulla strada che conduce a Koes, nei territori della fattoria Gariganus, 14 km a nord dalla città di Keetmanshoop. Poco lontano dal Giant Playground, nella regione arida del sud, ciò che vedrai è uno scenario che cambia euritmicamente secondo la luce solare e il momento del giorno, dall’alba al tramonto, un ambiente naturale unico nel suo genere.
Grandi alberi raggiungono dieci metri d’altezza, popolando l’area da duecento anni circa; i loro rami sono nudi e dicotomici (si dividono in coppie) e le foglie, che possono attecchire fino a trenta centimetri in lunghezza, sono affollate, polpose e con margini pungenti. Nei mesi invernali e in primavera, quando le precipitazioni restano abbondanti, gli alberi faretra si riempiono di fiori simili a rose dai colori cangianti tendenti al giallo ed è una caratteristica di queste giungle strane e meravigliose che, a dispetto di fusti altissimi, rose e foglie oblunghe, non riescono a fare ombra.
Come spesso accade in Africa, la Quiver Tree Forest custodisce uno status "sacro" per le religioni animiste del luogo, ma per i visitatori è oltremodo interessante per un fattore diremmo “ottico”: gli alberi sembrano crescere in modo capovolto, un punto di vista bizzarro dovuto probabilmente al fogliame che somiglia molto alle radici.
Nel sud della Namibia, oltre a sparuti bush curvati dal vento e a qualche arbusto, gli alberi faretra sono gli unici che troverete, non vi è altra vegetazione. Una foresta ulteriore si trova ad est di Sesriem; alcune, non spontanee, si osservano in siti di conservazione, come nel Karoo National Botanical Garden di Worcester, in Sudafrica.
“Scopritori” di queste fitologie autoctone sono stati coloni, esploratori e viaggiatori. Simon Van Der Stelle menzionò nel corso di una spedizione a Namaqualand nel 1685 e, al suo seguito, il disegnatore Hendrik Claudius le riprodusse in diversi bozzetti. Altri esemplari furono osservati ed effigiati anche da Thomas Baines nel 1866, nei pressi di Roodeberg. I disegni mostrarono al mondo occidentale foreste e paesaggi intorno a crinali di ruvida e cresposa roccia ocra, costellati da ciottoli e cristalli scintillanti.
Il momento migliore per godere appieno del luogo è durante i mesi invernali per evitare il caldo.
Skeleton Coast: la costa atlantica, i relitti e le otarie... segni di un mondo primordiale
Una lunga strada semi deserta si confonde sulla superficie arida lungo la costa dell’Atlantico “dove tutto sembra tornare polvere” (cit.). Qui incontri solo qualche pescatore solitario con il suo fuoristrada parcheggiato sulla striscia di sabbia, carico di provviste e taniche di benzina.Tuttavia, non è questo il motivo per l’appellativo di Skeleton. La strada, la spiaggia, la costa si chiamano così per le innumerevoli navi che si sono arenate nel corso del tempo, colpa le correnti, le tempeste, le nebbie, i fondali frastagliati. Ciò che resta di questi relitti è strappato dal vento e dalle onde, ultimi passaggi umani riassorbiti dal deserto e dal mare fino a sparire del tutto, a diventare polvere nella polvere, appunto (i resti della nave Zelia sono fra i più recenti, risalgono appena al 2008. Il relitto è ben indicato lungo la strada fra Hentie’s Bay e Cape Cross.
Altra curiosità: la costa namibiana è definita al pari di un “deserto freddo”. In un paese tropicale ciò è dovuto a una disposizione climatica, la corrente del Benguela che arriva dall’Antartico e rinfresca la temperatura stabilizzandola sui 17° anche nei mesi più caldi.
Sulla Skeleton Coast dimenticatevi il comfort dei campi tendati nella savana, questo è l’ultimo avamposto per la civiltà del lusso, fino al confine con l’Angola e oltre c’è solo qualche campeggio. Finalmente a Cape Cross, quasi sul confine angolano, l’oceano regala una visione impressionante: una distesa di decine di migliaia d’otarie. I loro versi, lamentosi o feroci squarciano l’aria, l’odore è quasi insopportabile ma ci rendiamo conto che siamo al cospetto di un mondo primordiale, di cui, ormai, non siamo più parte.
Chi volesse può fare una sosta nell’interessante museo dedicato alla storia del luogo, che deve il suo nome alla croce piantata dal portoghese Diogo Cao, primo europeo a sbarcare nel 1486. Dopo un centinaio di chilometri da Cape Cross si arriva a Ugabmund, zona protetta del parco nazionale, percorrendo l’interminabile strada di salsedine e polvere sulla costa Atlantica.
La terra dei popoli San e Damara
Difficile immaginare un territorio controverso come quello della Namibia in mano ai colonizzatori tedeschi preoccupati, più che altro, d’estrarre diamanti; tra il deserto del Kalahari e l’Atlantico meridionale, difficile immaginarli nel sole accecante di questi spazi sterminati, nel paese più arido a sud del Sahara.
Oggi la Namibia rappresenta la vera roccaforte del turismo comunitario in cui la difesa della natura è parte integrante della Costituzione. Lo stesso Ministero dell’Ambiente e Turismo è impegnato in un’unità di lavoro (il progetto Community-Based Natural Resource Management), che coordina egregiamente lo stato di conservazione e lo sviluppo economico.
Il governo centrale ha quindi incoraggiato la creazione di villaggi e campi gestiti direttamente dalle etnie locali: il miglior modo per avvicinarsi a una Namibia autentica, incrementare il turismo eco-compatibile, aiutare le popolazioni indigene. Nelle zone rurali si allestiscono le Conservancies, unità autoctone, terre e fattorie comunitarie nelle quali si sovrintendono difesa ambientale e crescita economica.
Un modello di Conservancy è Torra, vale a dire la terra dei Damara (Damaralands), fra le prime etnie originarie insieme ai San o Boscimani, ai Nama, seguiti poi da diversi gruppi Bantu, come gli Herero e gli Ovambo.
La maggioranza dei lavoratori è parte integrante della comunità, vive di turismo ed è particolarmente impegnata a proteggere la fauna selvatica dal bracconaggio. Le guide Damara sono orgogliose di mostrare antilopi, elefanti e rinoceronti neri ai viaggiatori venuti da lontano solo per godere di queste bellezze.
Il deserto del Namib e Soussusvlei, le dune rosse più alte del mondo
Gli altopiani ricoperti di cespugli e disseminati di pan (bacini endoerici che nelle stagioni più secche si ricoprono di sale), attraversano quasi l’intero Paese per sfociare nel deserto del Namib con le sue dune piramidali, forse il più antico al mondo. Il pan più scenografico è nel Sossusvlei, un altro, molto grande, si trova all’interno del Parco Nazionale d’Etosha. I pan richiamano numerosi e svariati uccelli migratori, che si ricongiungono a riposare sulle rive, creando uno spettacolo senza eguali. Al Sossusvlei ci sono le dune più alte del mondo, Big Daddy (390 metri d’altitudine) e la famosissima Duna 45, con la sua sabbia colorata in tutte le sfumature di rosso. Gli ossidi di ferro che sprigionano queste accese gradazioni, sono gli stessi presenti nella conformazione delle aree secche su… Marte!
Superando le pianure che si spingono fino alla costa atlantica, a sud del fiume Orange, c’è l’area desertica del Kalahari, mentre a nord si circoscrive una stretta fascia di superficie chiamata Dito di Caprivi e usata dai tedeschi come accesso al fiume Zambesi. Il delta del fiume Okavango, come lo straordinario Parco dell’Etosha, sono riserve naturali fra le più riproduttive in Africa per il wildlife.
Seguendo il corso dell’Okavango, fra i più estesi sistemi idrici al mondo, attraversando Kangango, Andara, il Mahango Game Reserve e il parco nazionale di Bwabwata, valli fluviali e pianure paludose diventano habitat ricchi di biodiversità per una fauna straordinaria. Fra paludi e savane, si scorgono alberi di baobab e uccelli rari (martin pescatore bianco e nero, glareola cinerea…), ma anche waterbuck e nyala, coccodrilli, ippopotami, bufali e una singolare specie d’antilope, il bluebuck.
Il Parco Etosha e gli uomini rossi, gli Himba
Con i suoi 20.000 kmq, il Parco Nazionale di Etosha ha una prerogativa che lo rende unico: in qualsiasi altro luogo impieghi ore o addirittura giorni per avvistare fauna selvatica, da osservare o fotografare. Qui sono gli animali ad avvicinarsi, basta fermarsi nei pressi delle tante buche d’acqua, aspettare un po’ mentre leoni, elefanti, antilopi e gazzelle si appresteranno a centinaia!
La reintroduzione del rinoceronte bianco ha ottenuto grande successo e si vedono tanti esemplari di questa maestosa specie, braccata e minacciata d’estinzione. Il parco è infatti un donor, un ente speciale che cede animali ad altre riserve qualora queste ultime richiedessero un ripopolamento di varie specie. Ai confini del parco, il Pan Etosha è un immenso deserto piatto e salino. Ogni anno, nella stagione delle piogge si trasforma in una bassa laguna, oasi per fenicotteri e pellicani; viceversa, nella stagione secca, la sabbia bianca avvolge ogni cosa, dai prati, agli elefanti. Tutto appare mutato e spettrale.
Intorno al parco, nei villaggi del Kaokoland, vive un’etnia fra le più “perseguitate” dai turisti: sono gli Himba, diretti discendenti dell’antico ceppo Bantu, a lungo rimasti isolati. Nel rifiuto d’allinearsi al modus vivendi importato dall’Occidente, gli Himba sono angariati da una sorta di morbosa curiosità, soprattutto nei confronti delle donne. Sono proprio le donne a difendere le usanze più antiche, ostentano la loro nudità, fatta eccezione per un gonnellino di pellame, spalmandosi da capo a piedi una mistura di grasso animale color ocra, che dona all’epidermide una tonalità lucente e rossiccia, simbolo di bellezza oltre che libero e disinibito richiamo sessuale.
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